Autore: dipendechevino

Ho ancora molta sete di vino, sono solo all'inizio.

Fase 2.x, andare nei Colli Berici in moto a degustare il Tai rosso

La fase due (a Milano), sembra sia percepita in modo diverso da ognuno, c’è chi se ne esce a passeggio con mascherina calata sul collo e famiglia al seguito e chi rimane chiuso in casa timoroso. Io, a parte le consuete puntate al supermercato, ho finalmente fatto qualcosa di diverso. Ho rimesso in funzione il monocilindrico, una Yamaha Teneré 600 del 2011. Metterci le chiappe sopra e sentire di nuovo l’aria in faccia e l’asfalto che scorre sotto mi è parso bellissimo. Una gioia che ogni motociclista conosce bene. Un piccolo giro in città per non far scaricare del tutto la batteria e fargli bere quel deca di benzina fragrante spillata dal benzinaio di fiducia. 

Dovrebbe essere un post sul Tai rosso in foto e nel calice. Cercavo un collegamento. Sento le vocine che mi dicono “scrivi troppo, mi sono stancato di leggere”.  Tieni duro, ancora qualche riga e arriva il vino. Mi diverte assaggiare, almeno quanto andare in moto in un nuovo posto, è la scoperta, il piacere del viaggio e della degustazione, il condividere e fissare un nuovo ricordo. Facciamo finta che sono lì, vicino ai vigneti, a Sarego (VI), in una trattoria con tavoli all’aperto, le gambe sotto il tavolo e la bottiglia di Tai Rosso davanti. È un Colli Berici DOC 2018 della cantina  di Gianni Tessari con sede a Roncà (VR). Il Tai rosso è un tipico vitigno dei Colli Berici, parente genetico della Grenache e del Cannonau. I profumi sono intensi, di marasca e spezie dolci, mi ricorda il cacao e la cannella. Caldo e vibrante nel gusto, ha un tannino e un’acidità equilibrata. Alle note fruttate seguono quelle dell’affinamento in legno (1 anno di botte grande), il finale è sapido e fresco. È un vino di media corporatura, di quelli che potresti mettere in tavola tutti i giorni sia con una pasta al ragù piuttosto che un tagliere di formaggi e salumi. Questo vino mi ha riconciliato con la normalità e ricordato il piacere di visitare posti nuovi, anche solo percependoli in un vino, prima di poterci andare veramente … magari in moto.

Luca Gonzato

Montecarlo Doc Tenuta Buonamico

Dall’antico borgo Montecarlo di Toscana, nella provincia di Lucca, il bianco “Etichetta Bianca“ della Tenuta del Buonamico. I vini di Montecarlo hanno una storia particolare e incuriosiscono per la presenza delle varietà francesi. A fine 800, l’appassionato viticoltore Giulio Magnani, allora proprietario della Fattoria Marchi-Magnani, a seguito del viaggio in Francia per lo studio della vite, importò numerose varietà e le sperimentò con altre uve nostrane fino ad ottenere vini di grande qualità. Anche grazie ad altre cantine, la qualità dei vini li rese famosi sia in Italia che all’estero. Nel 1930 arrivarono alla tavola delle nozze reali del Principe Umberto di Savoia e Maria Josè al Quirinale. All’epoca era anche conosciuto come “lo Chablis di Montecarlo”. Nel solco di una storia così importante è cresciuta anche la Tenuta Buonamico, fondata negli anni 60 nella zona di Cercatoia a sud-ovest di Montecarlo. L’Etichetta Bianca Buonamico, annata 2018, è un blend di Trebbiano Toscano, Pinot Bianco, Sauvignon, Malvasia e Semillon. La fermentazione e l’affinamento delle uve avviene singolarmente per ogni vitigno, in acciaio. L’assemblaggio viene fatto nella fase di pre-imbottigliamento. Nel calice è luminoso, brillante. I profumi sono invitanti. Freschi, di fiori bianchi e pompelmo con sfumature di erbe aromatiche. In bocca si percepisce la complessità aromatica del blend, quella tipica nota del Sauvignon che ricorda la foglia di pomodoro, poi la rosa, il miele. Bella l’acidità iniziale che si arrotonda in bocca. Gli aromi persistono, mi piace molto la vibrante e sapida mineralità che compare alla fine e ti accompagna per minuti. Buon vino bianco e buon rapporto qualità prezzo. Ideale per un aperitivo sul balcone, senza prendersi rischi. Ma lo vedrei bene anche al ristorante ad accompagnare una tagliata di tonno come consigliato sul sito del produttore.

Luca Gonzato

Roma doc 2018

Nome ed etichetta di questo vino esercitano innegabilmente una forte attrazione. L’ho scelto online e mi sono immedesimato nel turista a Roma, che magari lo acquista come souvenir. Lo so è una stupidata ma ha suscitato la mia curiosità sulla qualità e la rappresentatività che poteva trasmettere. Da appassionato sono anche consapevole del valore che ha il territorio romano per la viticoltura, sia per la conformazione di origine vulcanica del suolo, che per il merito dei romani d’aver diffuso la vite in tutto l’impero. Il suolo di tufo, ricco di minerali come potassio, fosforo e zolfo, trasmettono al vino quella tipica mineralità che si trova nei vini ‘vulcanici’. Nello specifico di questo vino ci troviamo nella zona dei Castelli Romani, nel regno del Frascati. Il produttore è l’Azienda Agricola Poggio le Volpi, fondata nel 1996, con sede nel comune di Monte Porzio Catone. 

Il Roma rosso, 2018, nel calice è sanguigno nel tono, si muove lento e consistente. I profumi esprimono rotondità, morbidezza, calore. Le note di piccoli frutti rossi sotto spirito si uniscono a quelle speziate dolci con richiami alla vaniglia, poi il cuoio, il pepe… L’ingresso è vellutato e imponente.  La sensazione minerale fa da cornice e rende il vino intrigante e non banale. Riguardo all’uvaggio, penso al corpo avvolgente del Montepulciano che si sposa con la struttura del Cesanese e alla speziatura del Syrah. Tre uve che rappresentano bene anche la ‘Romanità’, il Cesanese nella sua tipicità laziale, il Montepulciano per l’Italianità, (secondo solo al Sangiovese) e il Syrah come internazionalità, che potrebbe essere un ricordo di quella Roma caput mundi che l’ha resa famosa nel mondo. In sintesi, ho trovato le risposte che cercavo. Lo trovo un buon vino, con le caratteristiche per farsi piacere a palati differenti mantenendo però una bella personalità. Un vino dal cuore italiano, anzi romano, capace di parlare un linguaggio internazionale.

Il vestito è bello ed anche il vino. Roma doc rosso, visto da Milano, 28 aprile 2020.

Luca Gonzato

Pietrobianco 2018, Daniele Portinari

Pietrobianco 2018, Daniele Portinari. Blend di Pinot Bianco 70% e Tai bianco (Friulano) 30%. Vino naturale (cantina associata Vinnatur), fermentato con lieviti autoctoni e non filtrato. Un vino fresco e gradevole dai sentori floreali e agrumati con piccole sfumature di resina e mandorla. Minerale e sapido nel finale. È un vino di personalità che ti conquista lentamente. Lunga la persistenza e bello il finale di agrumi freschi che ti fa salivare. Ad esempio lo trovo un perfetto accompagnamento alle fritture. La zona di provenienza è quella dei Colli Berici nel Vicentino. Il nome è una dedica al figlio Pietro nato nel 2010.

Bel bianco per l’estate, sperando di poterlo condividere con gli amici stando nello stesso spazio e senza mascherine in faccia. Meglio tenerne una bottiglia in più nel frigorifero perchè è facile che finisca in fretta.

Luca Gonzato

Chateau Latour a Pomerol 1993

La sorpresa di Pasqua è stata quella di poter degustare un vino con 27 anni sulle spalle. Una riserva speciale, da uno dei luoghi mitici per i winelover, Pomerol. Subito viene in mente Petrus ed infatti è sempre J.P. Moueix a gestire la produzione di Chateau Latour a Pomerol (proprietà del Foyer de Charité de Chateauneuf de Galaure). L’uvaggio è di Merlot 90% e Cabernet Franc 10%,  1993 l’annata. Alla stappatura, tolta la capsula, il tappo è risultato integro seppur intriso di vino e ammorbidito. Il colore è granato con una bella consistenza cromatica e riflessi rubini. È limpido e luminoso. Il profumo è complesso, fine, balsamico con piccoli frutti rossi in confettura, cacao amaro, tabacco. Il sorso è ancora fresco nell’acidità, si ritrovano gli aromi fruttati e un retrogusto mentolato. Il tannino è magnificamente integrato. È l’equilibrio e l’eleganza a rendere speciale questo vino. Mi sarei aspettato un corpo più robusto ed invece è ancora dinamico e vitale. Maturo e in forma come quei vecchietti che corrono le maratone. Avrebbe potuto tranquillamente raggiungere il traguardo dei 30 anni. Non è un caso questa longevità, è il Terroir, nel suo significato più esteso. Pomerol, ‘ça va sans dire’.

Translate »