Dipende che vino: Vendita vini ...e qualche calice in degustazione

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Buttafuoco 2015 Vigna Pregana, Quaquarini

Il logorio della vita moderna minaccia la nostra esistenza, e allora? Allora affidiamoci alle virtù salutari del Buttafuoco Storico dell’Oltrepò Pavese. Una botta di Polifenoli e Resveratrolo che oltre alla bontà del vino ti regalano una forte azione protettiva sul cuore e una potente attività antiossidante.

Quello che vi presento è un Buttafuoco da agricoltura biologica. A produrlo è la cantina Quaquarini di Canneto Pavese (PV) che ne coltiva le uve nella vigna storica di Pregana, a cavallo dei comuni di Castana, Montescano e Canneto Pavese, al centro della zona del Buttafuoco. 

Il vino ha davvero tanto colore e toni scuri quasi impenetrabili. I profumi sono austeri e intimoriscono, come trovarsi con l’auto in panne in una serata nebbiosa, bussare alla porta di una cascina e trovarsi di fronte una persona anziana, rugosa e barbuta con lo sguardo severo. Ne esce un profumo di bosco, di tabacco, di frutta macerata. Riesco a scorgere il caminetto dietro le sue spalle che scalda la stanza. L’accoglienza all’assaggio è la migliore possibile, si apre su aromi dolci di frutta sotto spirito, ciliegia, frutti di bosco. La bocca si scalda del 14° di vol. Mi guardo intorno è arrivano sentori speziati e di astringenza tannica. Mi accomodo sul divano ammirando la stanza piena di oggetti e questa annata 2015. Tutto sa di lavoro in campagna, di stagioni e di tradizione. La persistenza è lunga ed è un ottimo accompagnamento ad una chiacchierata in compagnia. Ho immaginato l’abbinamento con le castagne ma uno stufato con polenta sarebbe più appropriato. 

L’uvaggio è Croatina 50%, Barbera 35%, Ughetta di Canneto 15%. 

Bel vino, forte, austero, dolce ed equilibrato allo stesso tempo. Un classico che rende merito ad un territorio di grande valore.

Nota sul Buttafuoco

Il marchio adottato è composto da un ovale, rievocazione della botte tipica dell’Oltrepò Pavese, sostenuto dalla scritta Buttafuoco e dal quale si dipartono due nastri rossi rappresentativi dei due torrenti, il Versa e lo Scuropasso, che delimitano la zona storica di produzione; all’interno la sagoma di un veliero sospinto da vele infuocate a ricordare che nella seconda metà del 1800, la Marina Imperiale austro-ungarica varò una nave dal nome “Buttafuoco”.

La leggenda vuole che il nome sia il ricordo di una battaglia perduta da una compagnia di marinai imperiali, comandati a operazioni di traghettamento sul fiume Po nei pressi di Stradella e successivamente impiegati su queste nostre colline nella guerra contro i franco-piemontesi. Un vino del luogo chiamato Buttafuoco ebbe più successo del fuoco della battaglia nell’ attirare a sè i baldi marinai, i quali, dentro una grande cantina, fecero strage di botti e bottiglie. 

(https://www.buttafuocostorico.com)

Casa e Chiesa 2018, Tenuta Lenzini

Questo vino mi ha evocato atmosfere country e ballate al chiar di luna con le file di lampadine colorate tirate da un albero all’altro. Ripensavo ai jeans, l’intramontabile tessuto reso famoso dalla Levi’s e a come sia stato interpretato in modo diverso negli anni rendendolo sempre attuale. Così come il Merlot, intramontabile vitigno che riesce a fondersi in un terroir dando sempre un risultato diverso. 

Tenuta Lenzini di Gragnano (LU), ne trae un Merlot dal carattere sincero e diretto. Profuma di sottobosco e cuoio, di terra e sudore. È una festa, qualcuno fuma un sigaro al tavolo accanto e l’aroma dolce si sposa con il frutto di marasca. Succoso e con una bella nota balsamica che accompagna il sorso. Suonano i Mumford & Sons con I Will Wait, buona la persistenza e docile il tannino. Beverino e fresco da far pensare alla leggerezza e invece ha il 14,5% di volume alcolico. Caldo sì, ma quello bello che ti trascina nel ballo. Bel finale di sorrisi appagati e sudore. Manca solo la possibilità di far festa veramente tra amici, mi accontento di un brindisi a distanza in questo periodo morigerato tutto Casa e… Enoteca. Alla Salute amici winelover!

Vini Svedesi?

Incredibile ma sì. La vite oltre il 55° parallelo è una realtà e iniziano a vedersi sul mercato vini provenienti da paesi come Danimarca, Svezia o Scozia. Il cambiamento climatico e i vitigni PIWI (resistenti alle malattie fungine e al freddo) sono i protagonisti di questa viticoltura nordeuropea che muove i suoi “primi passi” ormai da un decennio.

Qualche giorno fa ho partecipato ad una bella degustazione di vini svedesi organizzata da AIS Milano e presentata dalla sommelier Therése Lönnqvist insieme a Massimo Recli. Ho potuto così approcciare alcuni dei vini prodotti da due delle 40 cantine attualmente registrate in Svezia. 

Gli ettari vitati sono ancora pochi, un centinaio, ed ubicati nella parte sud del paese prevalentemente vicino al mare dove le fredde temperature sono più miti. Considerate che la media annuale si aggira sui 6°.

Interessante come l’aspetto pioneristico che anima i coltivatori, e gli svedesi in generale, trovi soluzioni inaspettate per l’allevamento della vite in un territorio considerato estremo per la vite. Ad esempio si affrontano le possibili gelate con una nebulizzazione che congelandosi crea un guscio protettivo alla vite. I vigneti sono alti e ricchi di fogliame per catturare la poca luce che però non significa ombra ma oscurità. Ai suoli derivanti dalle glaciazioni con matrice di sabbia e sassi morenici viene effettuato il sovescio e concimazioni che contemplano anche l’utilizzo di alghe che vengono prima lasciate a dissalare. Tra i diversi vitigni coltivati i più diffusi sono il Solaris a bacca bianca e il Rondo a bacca rossa.

Cinque gli assaggi proposti durante la serata:

1° vino, uno spumante Brut 30 mesi sui lieviti, il Pegasus Mousserande 2015. La presenza di bollicine è scarsa per i canoni a cui siamo abituati. Gli aromi ricordano la mela golden, il sambuco e i lieviti. Niente male come finezza. Il paragone magari non è appropriato ma alla cieca l’avrei scambiato per un Prosecco.

2° vino da Arilds Vingård Solaris 2018, note floreali e di Sambuco. Vinificato solo in acciaio trasmette sensazioni di freschezza e giovinezza. Con una spinta di acidità che richiede l’accompagnamento di un cibo grasso come ad esempio il salmone o l’aringa che ho nel piatto. Specialità svedesi gentilmente offerte dalla Björk Swedish Brasserie di Milano che nell’abbinamento ho molto gradito.

3° il Pegasus Stål 2018, altro Solaris, più rotondo e con un bel bouquet di aromi di albicocca, frutti tropicali, vaniglia e sfumature di pietra focaia. Tra i vini assaggiati è quello che ho trovato più interessante e che mi comprerei. Buona anche la persistenza e l’armonia generale.

4° vino il Pegasus Solera, ma non pensate al celebre metodo Solera di affinamento che prevede il passaggio di una parte di vino da una botticella all’altra durante gli anni. In questo caso è stato fatto un blend di 4 annate 2015/2016/2017/2018 di cui le prime tre affinate in legno e la 2018 in acciaio. Il risultato a mio avviso non è però granché, risulta appunto un assemblaggio dove fatico a percepirne un carattere interessante seppure gli aromi siano composti e gradevoli. 

5° e ultimo vino, Arilds Vingård Barrique 2016. In questo caso il Solaris viene affinato in barrique nuove per 12 mesi e per 25/30 mesi in bottiglia. Arrivano potenti gli aromi di zenzero e sambuco, ma anche speziate di cardamomo e aromatiche di rosmarino. Tanta roba, troppa a mio giudizio. Si perdono gli aromi delicati e fruttati del Solaris dando troppo spazio al legno. 

Questi vini sono un bel esempio di sperimentazione e di ricerca della migliore espressione del Solaris in un terroir ancora tutto da definire. Se paragonati ai Solaris italiani si possono trovare caratteri comuni di freschezza ma risultano molto diversi nel complesso degli aromi secondari e terziari. In quelli Svedesi ad esempio c’è una presenza costante dell’aroma di Sambuco, mi piace pensare che sia un marcatore tipicamente Svedese.

Penso che in futuro la sperimentazione indicherà le strade migliori e vendemmia dopo vendemmia i vini acquisiranno piacevolezza e tipicità. Io di certo non perderò l’occasione per provarli. Benvenuta nel calice anche la Svezia!

Gaja e Sassicaia

“SassiGaja“ era l’evento di degustazione che apriva il ciclo di seminari che accompagnavano la presentazione della Guida essenziale ai Vini d’Italia 2021 di Doctor Wine, Daniele Cernilli. Un’occasione unica per assaggiare diverse annate di due eccellenze assolute dell’enologia italiana.

Il rosso Bolgheri Sassicaia di Tenuta San Guido (Castagneto Carducci, Toscana), da uve prevalentemente di Cabernet Sauvignon con un piccolissima parte di Cabernet Franc e il bianco Gaia & Rey di Gaja (Langhe, Piemonte) da uve Chardonnay. Parliamo di bottiglie che mediamente si aggirano sui 300€. Difficilmente potrei permettermele ma grazie a iniziative come questa, anche il winelover meno abbiente può vivere l’esperienza dell’assaggio. Quindi da subito un grande grazie a Cernilli per la bella opportunità che mette insieme varie annate di Sassicaia e di Gaia & Rey.

La domanda che mi sono sempre posto e che penso sia comune a molti appassionati è “ma valgono davvero tutti quei soldi?”. Più che dare una risposta univoca si possono fare delle considerazioni, la Ferrari vale davvero quello che costa?, un abito di Versace o Armani vale davvero così tanto?.

I vini menzionati, visti nell’ottica delle eccellenze, farebbero dire di sì in ogni caso e a confermarne il loro valore abbiamo la variabile che sono prodotti “organici” frutto dell’uva, dell’annata e di quantitativi piuttosto limitati. Non si fabbricano come un’auto o un vestito. Poi possiamo aggiungerci tutti gli aspetti di marketing e la grande richiesta sproporzionata rispetto all’offerta ed ecco arrivare sulle bottiglie le cifre menzionate.

Possiamo anche discutere del concetto di “eccellenza”, perchè anche qui uno potrebbe dire “quello che è buono per me magari non lo è per te”, ma nel caso di questi vini vi sono giudizi dati dai migliori esperti al mondo, dove l’aspetto soggettivo della “piacevolezza” è contemplato solo in relazione a tutta una serie di parametri che rendono tecnicamente più o meno perfetto un vino e che si basano ad esempio su acidità, corpo, tannini, aromi, persistenza ecc.

Da sommelier e assaggiatore ho potuto approcciare questi vini con gli strumenti per potermi fare una mia idea e senza soggezioni di alcun tipo sono arrivato comunque a riconoscerli come delle vere superstar. Vini accomunati da quella “precisione” stilistica di ogni loro componente che regalano sensazioni di armonia e perfezione. Per perfezione intendo quel pensiero, successivo alla deglutizione e progressione di un vino, che ti dice “non ci vorrebbe niente di più o di meno, è fantastico così”.

Poter assaggiare diverse annate aggiunge un livello di comprensione della strada evolutiva di un vino, da giovane a maturo o vecchio, tenendo però presente che questi due vini, grazie all’estrema “precisione” in vigna e in cantina, hanno valori di longevità incredibili rispetto alla gran parte dei vini in commercio.

Gaia & Rey, Gaja annate 2018/2006/1996

Ad accomunare le tre annate sono l’eleganza, gli aromi fruttati e le note di pietra focaia che via via si propongono con sfaccettature diverse. La vinificazione prevede quasi sempre la malolattica solo su una parte delle uve. Il nome è un tributo di Angelo Gaja alla figlia Gaia e alla nonna, Clotilde Rey. Un vino icona, che primo in Italia ha visto lo Chardonnay in purezza affinato in botti di rovere.

Nella 2018, che è stata un’annata leggermente più fresca rispetto alle altre, si percepisce un frutto fresco quasi agrumato con aromi di lieviti e sensazioni minerali sapide. Sottile, elegante e “vivace” come può essere un giovane a vent’anni, con la pelle liscia e tanta energia da scaricare prima di arrivare a sera. Certamente buono ma con un futuro grandioso davanti per il quale conviene aspettare.

La 2006 ha note di pietra focaia più evolute e un corpo già strutturato. Arriva da un’annata calda. È potente, più rotondo e di una lunghezza aromatica infinita. Veramente buono e pieno di vitalità. Regala armonia e il meglio che si possa immaginare da uno Chardonnay.

La 1996, con i sui 24 anni di affinamento (un traguardo che meriterebbe la Ola allo stadio), è uno spettacolo che ti emoziona. Ancora perfetto e composto, pulito. Con le note di frutta esotica e di pietra focaia. Sensazioni calde e burrose si sciolgono in bocca su aromi che arrivano a ricordarmi l’incenso di chiesa. Adulto, composto ed elegante.

Bolgheri Sassicaia 2017, 2016, 2015, 1997 Tenuta San Guido

Da neofita del Sassicaia la cosa che noto subito in questi vini è la notevole differenza dai Cabernet che normalmente mi capita di assaggiare, spesso caratterizzati da aromi vegetali che ricordano il peperone o la foglia di pomodoro. In ogni annata del Sassicaia vi è una evoluzione che riporta il frutto in primo piano. Quello che però fa guadagnare a questi vini punteggi che oscillano tra il 95 e il 100 è l’estremo equilibrio tra acidità e tannini. È un vino di grande eleganza e equilibrio dove il solista Cabernet, con la sua voce, riesce a riempire la stanza di suoni perfettamente coordinati. 

2017 dal naso pulito ed elegante, succo fresco di mirtilli e ribes nero con sfumature terrose. Se  paragonato alle altre annate risulta ancora giovane ma se me lo mettete in tavola non lo mando certo indietro.

La 2016, più morbido e dal frutto che vira verso la  confettura si è guadagnato il palcoscenico internazionale. Grande equilibrio e piacevolezza.

La 2015, risulta più complessa ed è quella che ho preferito. A tutte le precedenti caratteristiche si sommano quelle note fumé che sono tipiche del Sassicaia. Grandissimo vino, questo merita la Lode e l’iscrizione ai migliori assaggi mai fatti.

La 1997 si discosta dalle precedenti per aromi evolutivi incredibili di frutto macerato e sotto spirito con accenti fumé e aromi che mi fanno pensare al peperone rosso cucinato alla griglia. Acidità ancora presente e tannini setosi. Grandissimo.

Vini che vorrei assaggiare ancora e ancora, ma che posso concedermi raramente. Ne rimane un bel ricordo e la speranza di riprovarli in futuro.

Sassicaia e Gaja, rappresentano la Grande Bellezza nel panorama vinicolo italiano, non sono gli unici, ma certamente delle bandiere nazionali che meritano di sventolare nel mondo. È stato un gran piacere assaggiare questi vini e se ne avete l’occasione spendete qualcosa in più del solito per poterli assaggiare, non ve ne pentirete.

Malanotte del Piave: Il Barba Rossa 2016

Mi fa piacere parlare di questa DOCG. Coinvolge le province di Treviso e Venezia e celebra un vitigno tipico del veneto che è ancora poco conosciuto, il Raboso. Il Malanotte del Piave DOCG della cantina Pizzolato di Villorba (TV) è senza dubbio una versione di grande personalità, anche perchè prodotta in regime biologico. 

Ricordavo il Raboso come un rosso corposo e per certi versi rustico con sentori vinosi e facilità di beva. Nel Barba Rossa 2016 i ricordi si dissolvono sotto una corporatura possente dagli aromi evoluti. Marasca e prugna, tabacco e spezie accompagnano un tannino deciso ma composto. Nel percorso gustativo si aggiungono note vegetali che mi ricordano i Cabernet con peperone verde e sedano. Bello come comunica naturalità e struttura. Ne percepisco il terroir e il potenziale dei rossi di “valore”. Il 30% delle uve viene appassito per circa 90 giorni; affina 2 anni in botti e barrique; viene commercializzato dopo minimo 3 anni. Penso sia un vino di grande interesse che mi piacerebbe assaggiare ogni anno della sua evoluzione. Il Barba Rossa ha il 14% di volume alcolico. Riesce ad essere caldo e allo stesso tempo vivo ed energico. Un vino dalla personalità unica che consiglio di provare. 

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